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"Io sono ancora grande, è il cinema che è diventato piccolo! (Norma Desmond / Gloria Swanson - Viale Del Tramonto)

Il Papà Di Giovanna

C'è una nuova tendenza nel cinema italiano di questi ultimi due-tre anni: un revisionismo storico che sfiora l'apologia del fascismo e tende a guardare i repubblichini di Salò con una strana simpatia, o almeno comprensione. Film come Sangue Pazzo o Il Sangue Dei Vinti sono passati quasi sotto silenzio, tale è stato il loro insuccesso al botteghino, ma Il Papà Di Giovanna, prodotto dagli Avati sotto il marchio berlusconiano Medusa, ha dato buona prova di se' nei festival ed ha riscosso un discreto successo in sala.
Innanzitutto i meriti. Avati si conferma un superbo autore di messa in scena (la ricostruzione della Bologna fascista, almeno per me che non ho vissuto quegli anni, appare ben curata, tenendo conto del budget non certo da kolossal) ed un sensibile direttore di attori: grazie a questo film credo proprio che Silvio Orlando, Francesca Neri (peccato per quelle labbrone così poco naturali, così poco anni Trenta), Alba Rohrwacher ed Ezio Greggio abbiano portato a casa le migliori interpretazioni delle loro carriere, per non parlare della mia gratitudine personale per aver riscoperto Edoardo Romano, qui nelle vesti dell'avvocato di Giovanna, e Gianfranco Jannuzzo. Formalmente quindi Il Papà Di Giovanna è un film impeccabile, di quelli che possono piacere tanto all'estero, laddove si immagini che l'Italia sia ancora quella.
Le dolenti note sono tutte nei contenuti. Avati mette in piedi il verosimile teatrino di una famiglia piccolo borghese sconvolta dal crimine commesso dalla figlia Giovanna, famiglia che per questo va in frantumi: il papà di Giovanna resta morbosamente legato alla figlia per tutta la vita, la mamma segue il suo cuore e li lascia per un altro uomo, almeno fino all'incontro finale francamente risibile.
La famiglia è il nucleo della storia, una famiglia allargata anche agli amici più intimi ma che in ogni caso vive lo Stato, la legge, la giustizia, come un'intrusione nella propria esistenza. Una famiglia che basta a se stessa e che quindi si disinteressa del sociale, di quello che accade nel paese: la notizia delle leggi razziali scivola loro addosso come oggi si sbadiglia sulle centinaia di stranieri maltrattati da questo molesto stato odierno, è commentata come qualcosa di inevitabile: poveretti, vabbè, è pronta la pasta?
La visione del fascismo di Avati (pare quasi impossibile possa essere stato tra gli sceneggiatori, seppure non accreditato, del Salò di Pasolini), in questo film, appare per l'appunto indulgente, come un rumore di fondo ovvio e per nulla invasivo. Il gerarca prepotente di ieri non appare tanto più cattivo di un qualunque assessore odierno alla "lei non sa chi sono io". Mi dispiace ma l'abuso di un fascista non può essere assimilato a quello di un qualunque politicante perchè è pur vero che siamo sempre gli stessi italiani, ma all'epoca c'era una dittatura sanguinaria. Invece quest'ultimo elemento nel film di Avati è completamente assente.
Sicuramente si tratta di un'operina minimale, per l'appunto un dramma famigliare, ma lo sfondo di un'epoca serve anche a raccontare quest'ultima, ed Avati descrive gli ultimi fuochi di un Ventennio attraverso gli italiani brava gente, ad esempio attraverso la figura del poliziotto umano tutto cuore e famiglia, i cui abusi si limitano a scroccare qualche scatoletta, qualche sconto in sartoria e qualche posto al cinema. Peccato che lo stesso poliziotto, dopo l'armistizio, decida di diventare un repubblichino di Salò "per non tradire", anche se non è mai stato un acceso fascista: lo stesso alibi di chi preferì combattere coi nazisti di Hitler contro gli italiani che volevano liberare il Paese dalla dittatura. Ma andare a Salò, nel film, appare come la decisione più naturale, più scontata, più ingenua, proprio da italiano senza macchia timorato del proprio onore. E la sua morte eroica, avvenuta al culmine di un'improbabile e rocambolesca fuga da un sommario plotone d'esecuzione partigiano (partigiani cattivi che fucilano un povero uomo repubblichino di Salò senza un regolare processo, solo sulla base di una testimonianza, un parere, una simpatia) è quanto di più improbabile ed assurdo
Ma l'elemento più preoccupante di questo film è l'intero contesto nel quale avviene la fase processuale. L'assassina disturbata mentale Giovanna ha ucciso la nipote di un senatore fascista, il quale promette di smuovere mari e monti perchè l'assassina abbia il massimo della pena e non si avvalga dell'infermità mentale come attenuante. Ebbene, secondo Avati, durante la prepotente e sanguinaria dittatura fascista, i tribunali non erano influenzabili dal potere politico e la povera Giovanna ottiene senza problemi tutti i propri diritti. Non come oggi, con tutti questi cattivi giudici di sinistra che tanto male vogliono al Presidente del Consiglio, casualmente anche proprietario di Medusa
Di fronte a cotanta manipolazione storica non resta che azzardare due conclusioni:
o Avati è un genio, e ci mostra una dittatura la cui quotidianità non influenza più di tanto la vita comune della gente perbene per lanciare un'inquietante ombra sui tempi che viviamo oggi, oppure è un apologeta del fascismo e ci tiene a raffigurare la dittatura come uno dei tanti governi che si sono succeduti in questo paese, nè meglio e nè peggio. A voi le conclusioni.

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